Ignazio di Antiochia: la concretezza della fede
Una delle cose che mi piacciono maggiormente, in qualità di studioso delle origini cristiane, risiede nella possibilità di leggere e conoscere personaggi di spicco delle prime comunità disseminate nel Mediterraneo. Una figura in particolare merita particolare attenzione: Ignazio d’Antiochia. Il vescovo antiocheno, di cui oggi la Chiesa celebra la sua commemorazione, rientra per molti nella categoria di “personaggi minori” e meno conosciuti dal grande pubblico ma, al contrario, è fonte di grande riflessione. Ignazio nasce in Oriente e, secondo la tradizione, fu discepolo diretto di San Giovanni Apostolo. Convertitosi in età adulta, vive il suo impegno cristiano con grande zelo apostolico fino ad essere nominato vescovo, il terzo nell’ordine episcopale dopo San Pietro e Sant’Evodio.
Qui occorre fare un passo indietro. Oggi pensiamo che Roma ospitasse la comunità cristiana più importante del mondo romano, proprio in virtù del soggiorno di Pietro e Paolo. In realtà, nell’area orientale, erano Alessandria e Antiochia ad avere quello che il Concilio di Nicea nel 325 avrebbe definito una sorte di “primato”. Queste due città, che respiravano un clima culturale e religioso profondamente diverso, sarebbero state nel III-IV secolo le rappresentanti di due anime forti in seno alla Chiesa cattolica. Alessandria, in Egitto, risentendo dell’influsso greco-ellenistico e dell’apertura al mondo greco, era la sede di una comunità giudaica interessata a rendere compatibili il giudaismo e l’ellenismo grazie all’interpretazione allegorica della Bibbia sistematicamente sviluppata in chiave filosofica in base a parametri soprattutto di derivazione platonica.[1] In modo particolare, fu Filone d’Alessandria a tentare tale operazione. I cristiani che diedero vita alla comunità in terra d’Egitto respiravano a pieni polmoni questo clima culturale ed arrivarono a formulare una concezione specifica di Gesù inteso come “Logos” ovvero un’entità sussistente accanto a Dio che fungeva da intermediario tra il Padre e il mondo, sul modello del demiurgo di Platone. In sostanza, si dava maggior risalto alla sua natura divina per essere semplici e chiari. Antiochia, invece, dava maggior rilievo all’umanità di Cristo e alla sua concretezza anche in termini umani.
Come l’avrebbe definito papa Benedetto XVI, Ignazio è il vero “dottore dell’unità”[2]: unità di Dio e unità di Cristo (dispetto a molte eresie che circolavano al tempo e dividevano la parte umana e quella divina in Gesù). In particolare una corrente prendeva piede all’interno del mondo cristiano: il docetismo. Questa corrente, che prende il nome dal verbo greco “dokein” (sembrare, apparire) contestava la reale incarnazione del Figlio di Dio sostenendo che essa fosse solo apparente. In sostanza, sulla croce, Gesù non sarebbe morto veramente perché questo avrebbe negato la sua divinità. Ignazio si batte molto contro questa posizione in quanto, senza una vera morte, non ci sarebbe potuta essere la Resurrezione e, di conseguenza, la redenzione dei fedeli. Tale corrente trovò nello gnostico alessandrino Basilide il principale promotore: egli giunse a dichiarare che lo “scandalo della crocifissione” non sarebbe mai avvenuto o che, per lo meno, sulla croce Cristo fosse stato sostituito da Simone di Cirene che l’aiutò a portarla fino al Calvario come leggiamo nei vangeli. Ignazio si spende molto per sostenere la sua posizione, riconosciuta universalmente valida in occasione del Concilio di Costantinopoli (381) soprattutto nelle lettere Ai Tralliani e Agli Smirnesi.
Ignazio nel 107 sarebbe stato convocato a Roma su ordine dell’imperatore Traiano per affrontare il martirio “ad bestias” ovvero sbranato nella fossa dei leoni. Durante il suo viaggio, perennemente scortato, come ci riferisce Eusebio di Cesarea nella sua “Storia ecclesiastica” redatta nel IV secolo, il vescovo antiocheno avrebbe sostato in diverse comunità istruendole ed esortandole all’unità con Cristo. Avrebbe scritto diverse lettere che sono una preziosa testimonianza per conoscere la temperie spirituale e religiosa del II secolo. Si può cogliere in Ignazio il vero “realismo” cristologico tipico della Chiesa d’Antiochia per l’appunto, più che mai attento all’incarnazione di Cristo e alla sua concreta umanità. Come scrive nella lettera Agli Smirnesi, il cui vescovo era il celebre Policarpo, altro discepolo diretto di San Giovanni Apostolo, Cristo “è realmente della stirpe di Davide”, “realmente è nato da una vergine”, “realmente fu inchiodato per noi” (Smirnesi I, 1).[3] Questo ci porta ad una conclusione: la fede in Gesù Cristo non può essere vera e profonda se non penetra nella nostra umanità. Il rischio è quello di vivere una dimensione spirituale quasi mistica senza ricordarci che, proprio attraverso l’incarnazione e la resurrezione, Cristo ci dona una vita nuova. Quindi, quando ci sono peccati o atteggiamenti non buoni nei quali inciampi spesso, la cosa migliore che possiamo fare è permettere che la fede passi attraverso di essi per donarci una vita nuova. Una volta un amico nella fede mi disse: “Pensi davvero che Dio Padre voglia che tu gli presenti il tuo meglio? Per carità, è un Padre e desidera che tu porti frutto. Ma Lui vuole soprattutto i tuoi peccati, le tue difficoltà, le tue mancanze e i tuoi limiti perché solo così potrà agire e dare nuovamente senso all’invio di suo Figlio”. Pertanto, oggi offri al Signore tutto te stesso, tutta la tua umanità concreta e debole, non rinnegare quelle parti di te più grigie ma presentale a Gesù affinchè possa farci uscire la luce. Vivi la fede come un tutt’uno con la tua parte anche fisica e prega con le stesse parole di Ignazio: “Chi professa la fede non commette il peccato e chi possiede l’amore non può odiare”.
Emanuele Giuseppe Di Nardo
[1] M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, EDB, Bologna, 2010, p. 127.
[2] Benedetto XVI, Catechesi sui Padri della Chiesa, Città Nuova, Roma, 2008, p. 17.
[3] Idem, 2008, p. 15.
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