I santi che vissero “l’inutile strage”
Una dichiarazione di guerra, dopo quasi cento anni di relativa pace e stabilità, sconvolse i cuori d’Europa in un giorno d’estate, il 28 luglio: l’anno era il 1914, e la guerra, da conflitto tra due nazioni, divenne prima un (triste) affare europeo, poi addirittura mondiale. La Belle Epoque, epoca di pace, di progresso, di crescita economica e sociale, che pure aveva mostrato i suoi limiti, perse la sua innocenza in un caldo giorno d’estate, sostituita da anni di terrore e di morte che sconvolsero per sempre il nostro continente, avendo dei riflessi in tutto il mondo.
La dichiarazione di guerra che l’Impero Austro-Ungarico fece nei confronti del Regno di Serbia aveva, come è noto, affondato le radici nell’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, omicidio consumatosi il 28 giugno dello stesso anno. Ma le ragioni della rivalità e dell’odio tra i due regni era ben più antico e profondo. E in un’epoca in cui le connessioni, le alleanze e le rivalità tra gli stati erano ormai troppo strette per essere ignorate, fu impossibile limitare il conflitto a due sole nazioni: nell’arco di pochissimo tempo a fianco della Serbia si schierarono la Francia, l’Inghilterra, per via della c.d. Triplice Intesa, che le vedeva unite contro gli imperi centrali, ossia quello tedesco e quello austro-ungarico; con gli Asburgo, invece, si schierò la Germania, ma non l’Italia, che si dichiarò neutrale nonostante gli accordi derivanti dalla Triplice Alleanza, patto di cooperazione con i due imperi sopracitati. A questo scacchiere già complesso si unirono poi l’impero Russo, la stessa Italia, che rovesciò la sua alleanza e fece un cambio di campo in seguito al “Patto di Londra”, e gli Stati Uniti, vero e proprio motore della guerra e fattore determinante per la risoluzione del conflitto. Lungi dall’essere una lezione di storia, anche perché sarebbe assai complesso racchiudere in poche righe un conflitto così lungo e articolato, il nostro punto di vista si focalizza su come alcuni santi abbiano vissuto uno scempio epocale che, nei suoi estremi, coprì molti anni, dal 1914 al 1918 e portò con sé, secondo le stime ufficiali, circa 10 milioni di soldati di varia nazionalità, a cui si devono aggiungere le vittime civili e coloro che, pur essendo sopravvissuti alla guerra, morirono di lì a breve per le conseguenze fisiche e psichiche dovute alla guerra.
Nel mondo cattolico, infatti, ci furono diversi esponenti ed anche dei santi collegati in qualche modo alla Prima Guerra Mondiale: stiamo parlando del Papa del tempo, Benedetto XV, di S. Pio da Pietrelcina e di don Angelo Roncalli, futuro S. Giovanni XXIII. Un papa, un frate ed un sacerdote che vissero diversamente, ma con lo stesso cuore, quest’ora drammatica. Per l’Italia, neutrale allo scoppio della guerra, le promesse di vedere accolte le ultime istanze risorgimentali, il desiderio di sedere con i grandi d’Europa, il timore di rimanere fuori dai giochi, presero il sopravvento e portarono il re ed il capo del governo Salandra ad entrare in guerra nel 1915, ribaltando come già detto le previsioni e schierandosi dalla parte di Inghilterra e Francia. Sul soglio di Pietro era salito, proprio nel 1914 ed a cannoni già fumanti, Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa, che scelse il nome di Benedetto XV. Già dalla sua prima enciclica tentò di esortare e spingere le nazioni alla pace, perché lo spargimento di sangue era già significativo e si poteva pronosticare solo un peggioramento. Nonostante i suoi impegni ed i suoi sforzi, come detto, anche l’Italia, nel 1915, entrò in guerra, e la voce del pontefice fu sempre meno ascoltata. La sua opera, però, non si limitò agli appelli e alla ricerca di una soluzione diplomatica, ma si concretizzò in aiuti alle popolazioni civili colpite dal conflitto e nella nascita di un ufficio destinato a favorire il ricongiungimento dei prigionieri di guerra con i propri familiari. Celebre, nel 1917, fu la sua “Nota di pace”, indirizzata alle cancellerie dei paesi in guerra, in cui usò la famosissima espressione “l’inutile strage” per definire il conflitto che aveva mietuto già vittime e disastri in abbondanza. Questa guerra, per il papa, era il “suicidio dell’Europa Civile”, e per questo coinvolgeva tutti, presunti vinti ma anche presunti vincitori. Il suo appello, che cadeva nello stesso periodo in cui gli Stati Uniti si univano al macabro ballo, rimase inascoltato. Benedetto, però, non cercò di ristabilire la pace solo nel cuore dell’Europa, ma anche nell’impero ottomano, in cui cercò di difendere gli armeni dal genocidio perpetrato ai loro danni, per cui si stima la morte di circa 1,5 milioni di persone. Il suo impegno per la pace si mosse, dunque, su più piani.
Da un uomo di azione ed in prima fila nello scenario mondiale, come poteva essere un papa, ad un giovane frate di provincia, coinvolto nella Grande Guerra nelle retrovie: anche Francesco Forgione, già P. Pio da Pietrelcina, prese parte al conflitto, sebbene i suoi problemi di salute ne avessero rinviato più di una volta il suo impegno. Si può ben immaginare come, per un frate santo che amava il silenzio, la preghiera, la meditazione, e che già riceveva visioni soprannaturali, quello della guerra potesse essere uno scenario terrificante; tuttavia svolse il suo impegno a Napoli con fedeltà e con pazienza, accettando di buon grado i miseri compiti che gli spettavano: dai servizi di guardia al trasporto di grandi sacchi da un lato all’altro della caserma, fino alla pulizia di pavimenti e di gabinetti. Il suo più grande rammarico, ben più grande dei guai fisici che già lo caratterizzavano, fu quello di essere lontano dal suo amore, cioè da Gesù: solo quando poteva celebrare la Messa il giovane frate poteva finalmente tornare a vivere. E questo gli diede la forza per sopportare anche il lato peggiore della vita di caserma: turpiloquio, bestemmie, oscenità. Fu riformato definitivamente nel 1918 per “bronco alveolite doppia”, e poté così tornare a S. Giovanni Rotondo, dove da lì a pochi mesi ricevette le stimmate.
Dal maggio del 1915 al marzo del 1916 anche Don Angelo Roncalli, il futuro S. Giovanni XXIII, prese parte al conflitto in qualità di cappellano militare a Bergamo, dopo essere stato sergente di fanteria. Riportò anni dopo che quell’esperienza fu per lui importantissima nella sua maturazione come uomo e come sacerdote. Ai militari feriti, morenti, impauriti, sconfitti e disperati, coraggiosi e scoraggiati cercò sempre di portare conforto, speranza, in una parola, Dio. Servì i soldati condividendo con loro paure, timori e speranze, suggerendo loro di confidare nel Sacro Cuore di Gesù, al quale fece affidare tutti i suoi soldati tramite la preghiera di Consacrazione al Sacro Cuore. Amore per il prossimo, per i sofferenti, per la Patria e desiderio della pace: questi i sentimenti nati e cresciuti nell’animo del futuro pontefice, che vivrà anche la Seconda Guerra Mondiale e che anche in quel caso non rimase inerme. Contribuì alla salvezza di migliaia di ebrei dalla furia nazista, prima in Turchia e poi in Bulgaria, per via dei suoi rapporti di amicizia con l’ambasciatore tedesco ad Ankara Von Papen e con il re bulgaro Boris III.
Vite diverse, carismi e missioni diverse, ma unite da un solo punto: fare il bene, sempre, anche in un momento di guerra, anche in un momento di tenebra, anche se sembra insufficiente o inutile. Il Signore sa far sgorgare l’acqua dalla roccia, perciò mai perdersi d’animo. Nelle piccole e grandi tempeste quotidiane, non cessiamo mai di fare il bene, di portare pace come fece papa Benedetto, pazienza come S. Pio, speranza come S. Giovanni XXIII. E anche se la semina sarà dura, il raccolto, nelle mani del Signore, sarà abbondante.
Francesco Simone
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