I martiri cristiani: i veri “leoni”

“Da 86 anni lo servo […] come potrei bestemmiare il mio Re che mi ha redento?” Parole di un anziano solido, tutto d’un pezzo, che era stato invitato ad abiurare la sua fede, pena la morte. Questo servo innamorato risponde al nome di Policarpo, vescovo e martire. L’episodio legato al martirio di San Policarpo, avvenuto nel 155 circa, si lega alla data odierna: il 24 febbraio del 303, infatti, l’imperatore Diocleziano diede il via all’ultima grande persecuzione dei cristiani nel mondo romano. Questo ci dà modo di riflettere su quanto i martiri cristiani possano insegnarci, e su quanto possiamo essere orgogliosi di avere in Cielo dei fratelli e delle sorelle così.

La storia delle persecuzioni contro i cristiani a Roma inizia nel 64 sotto Nerone, l’imperatore che addossò ai cristiani la colpa dell’incendio della Città Eterna. Come si sa, i cristiani furono usati come capri espiatori per coprire le responsabilità dello stesso Nerone, che aveva per Roma progetti urbanistici “innovativi” che potevano essere realizzati solamente distruggendo parte della città. A questa seguirono molte altre ondate di discriminazione, intolleranza e vere e proprie persecuzioni, tra cui quella dell’imperatore Decio nel 250 e di Diocleziano nel 303. Le uccisioni, secondo la modalità più nota, avvenivano durante i giochi, con i cristiani mandati tra le fauci di leoni furenti o di altre fiere. In realtà quanto accadeva al Circo Massimo non era l’unica modalità di esecuzione dei cristiani: dalle testimonianze possiamo leggere di cristiani crocifissi o arsi vivi e quindi usati come torce per illuminare la notte. La situazione cambiò solamente nel 313, quando l’imperatore Costantino emanò l’Editto di Milano (o di tolleranza) con il quale il culto cristiano fu ammesso tra i culti leciti.

Già, perché il cristianesimo era considerato illecito e ritenuto pericoloso agli occhi dei romani. Il grande impero, tollerante con i culti che via via “importava” dai territori conquistati, si mostrò particolarmente rigido con la religione ebraica prima e con quella cristiana poi. Questi due culti, a differenza degli altri, non si potevano inglobare, non si potevano affiancare alla religione ufficiale. Il cristiano, in particolare, aveva una “pretesa” inaccettabile: quella di possedere la Verità, ed in base ad essa si dichiarava indisponibile a rendere culto pubblico ad un’altra divinità, seppur solo a livello formale ed esteriore. Il rifiuto di bruciare l’incenso davanti alla statua di una divinità pagana o dell’imperatore divenne, per molti, sentenza di morte certa. Eppure, come ricorda la vigorosa frase citata in apertura, questi uomini e queste donne non accettavano passivamente la loro sorte, né protestavano contro di essa: mostravano ragione della loro fede, e andavano con gioia incontro al loro Re, anche se questo significava pagare con la vita. Il cristianesimo era una forza dirompente, che andava a sconvolgere le strutture e gli equilibri della società dell’epoca, e questo cambiamento, questo rinnovamento del mondo, non piaceva.

Emergono dalla storia delle persecuzioni a Roma, e più in generale nelle persecuzioni dei cristiani nel corso della storia alcune caratteristiche precise: il coraggio, un coraggio soprannaturale(unito all’assenza di vendette) e l’amore. L’amore per Qualcuno che cambia la vita e che diventa un motivo sufficiente per dare tutto,anche il sangue. Vivere senza Cristo è una perdita, morire per Lui un guadagno. Questo il “testamento spirituale” di questi uomini e di queste donne. Anche a noi oggi è richiesto un martirio, cioè una testimonianza. Non un martirio di sangue, forse, ma la testimonianza giornaliera, che può essere anche oggetto di scherno, derisione, critiche o peggio. Davanti a questo non bisogna temere, né bisogna turbarsi: c’è un modo di vivere per Cristo anche in contesti scomodi. Mi viene in mente a proposito un vero e proprio gioiello della letteratura cristiana, la Lettera a Diogneto. È un’opera del II secolo, epoca in cui cioè erano già molte le persecuzioni contro i cristiani: eppure in essa non c’è spazio per recriminazioni o rabbia. C’è un grande amore per il mondo, inteso come luogo redento da Dio. Non la fuga da un mondo che perseguita, quindi, ma l’amore per uomini e donne che possono conoscere Cristo e che possono diventare fratelli e sorelle. Amore e fermezza, dunque, in ogni aspetto della propria vita, anche nel rifiuto di cedere alle pressioni dei potenti per voltare le spalle al Maestro, al Re, e così salvarsi la vita. Questo lo stile di vita dei martiri, questo lo stile di vita di uomini e donne che hanno amato davvero, che hanno amato sempre, fino alla fine. Da veri “leoni”.

Francesco Simone

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