Il metodo di San Giovanni Bosco (pt. 1)
Come insegnante alle prime esperienze spesso mi sono interrogato su quale fosse l’approccio educativo migliore da tenere con i miei alunni: che sia alle medie o alle superiori, il bene dei ragazzi, la loro crescita umana e didattica, ma anche il rischio di apparire troppo rigido o troppo accondiscendente sono stati pensieri che mi hanno accompagnato e ancora mi accompagnano nei miei giorni lavorativi.
Non nego che la giovane età favorisca in alcuni momenti una grande familiarità con i ragazzi, di cui potrei essere in alcuni casi il fratello maggiore o il papà: che siano i risultati delle partite domenicali o eventi personali riferiti dai ragazzi, il racconto ed il coinvolgimento sono molto presenti; in altri momenti, invece, subentra la tentazione di mantenere lo status dell’insegnante scisso dai ragazzi, e quindi perseguire una linea rigida e più direttiva, chiudendomi al dialogo o limitandolo per favorire una “sana distanza”: il “farsi rispettare”, tanto per intenderci.
Come i latini ci insegnano, la virtù è nel mezzo, ed a questa convinzione sto giungendo anche mediante l’insegnamento lasciatoci da Don Bosco, che ha speso la sua vita al servizio dell’educazione di tutti i ragazzi, specialmente di quelli più a rischio perché nati in famiglie povere ed in difficoltà.
Il santo che ha fondato i Salesiani, e si è speso per l’educazione dei ragazzi della sua Torino, nel corso del 1800, ha fondato la sua missione su un’idea ed una precisa modalità educativa, denominata “sistema preventivo”, sfruttando le potenzialità degli oratori, luoghi di aggregazione e di crescita umana e spirituali per ragazzi di tutti i ceti sociali. La missione del Santo era quella di formare uomini e donne in grado di essere buoni cittadini e buoni cristiani, non con la repressione o con la durezza, ma con l’ascolto, l’accoglienza ed il desiderio di costruire e non di distruggere. Per semplificare, possiamo dire che Don Bosco ha fatto suo il detto: “Si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto”, o, fuor di metafora, si conquistano più ragazzi al bene e alla virtù con la dolcezza che con l’asprezza.
Ma in cosa consiste esattamente questo sistema preventivo?
Innanzitutto nell’accoglienza del ragazzo o della ragazza come dono di Dio: vedendolo quindi non come nemico, come massa indistinta o come un incapace (talvolta nell’educazione c’è anche questo retropensiero), ma come individuo unico, inimitabile, ricco di doni e da far crescere con la stessa cura ed attenzione che si darebbero ad una piantina fragile e appena nata: in quest’ottica, so che di fronte a me non ho un sottoposto, di cui io sono il capo, ma una persona, che devo guidare e formare con amore e disponibilità, perché anch’essa porta in sé il segno dell’amore di Dio. Non è un ragazzo qualsiasi, no: è un volto, una persona, una storia. Ha un nome: Nicola, Alessio, Angelo, Chiara…
In ogni ragazzo1, diceva Don Bosco, c’è “un punto accessibile al bene”. Nessuno è “un caso disperato”. Il ragazzo diventa così “il mio prossimo”, da amare e da servire.
Chiaramente, l’amore porta anche a dire dei sani “no”, a dare dei limiti e delle tirate d’orecchio: folle è quel genitore o quell’educatore che di fronte ad un concreto pericolo per il ragazzo che gli viene affidato (dai pericoli per l’incolumità fisica a quelli che possono andare ad intaccare la sua formazione umana e culturale ed in generale il suo sviluppo) lascia correre. L’educazione presuppone un aspetto “correttivo”, ma questo deve essere sempre finalizzato al bene della persona da correggere, e quindi deve essere libero da ogni vendetta o desiderio di “farla pagare”.
Un altro aspetto è quello di creare un ambiente accogliente: nessuno proverebbe gioia o avrebbe facilità nel vivere e nel crescere in un ambiente triste, severo oltre ogni limite, inflessibile: moderni studi psicologici e pedagogici hanno confermato l’illuminazione avuta da Don Bosco, dimostrando che l’apprendimento riesce meglio quando c’è autostima e comprensione da parte del docente o della figura adulta, e che i complimenti ed i rinforzi positivi hanno ricadute favorevoli per la crescita didattica ma anche e soprattutto personale dell’adolescente (e non solo). Quando, cioè, io faccio il bene e opero bene, è importante che io riceva una gratificazione, che mi aiuti ad accrescere la mia autostima e che mi indichi che sì, sto seguendo la strada giusta. Una difficoltà per gli studenti, che mette in crisi sia a scuola che all’università, è trovarsi di fronte un docente inespressivo, che non reagisce né in un modo né nell’altro alla mia interrogazione, per esempio, facendomi dubitare della giustezza delle mie affermazioni e della validità del mio studio.
Un terzo aspetto che Don Bosco ci indica come valido e funzionale per l’educazione del giovane è quello di condividere con il ragazzo alcuni interessi, interessandosi realmente alla sua vita e al suo stato emotivo: sarebbe sciocco pretendere da un adolescente, che ha gravi problematiche familiari o che sta passando un brutto momento (bullismo, anoressia, dipendenze e altre difficoltà sono “mostri” che spesso i ragazzi lasciano celati) che la sua attenzione sia esclusivamente sul ripetere bene, ad esempio, la lezione di storia, e che non sapere chi era o cosa abbia fatto Napoleone sia come una lesa maestà nei confronti dell’insegnante: fermo restando l’importanza dell’apprendimento, questo in alcuni casi viene al secondo posto, ed è molto più fruttuoso per un ragazzo scambiare quattro chiacchiere con il proprio educatore sul problema che sta affrontando che avere un rimprovero sulla mancanza di studio.
Questi tre sono solo i primi punti che Don Bosco ci ha lasciato come indicazioni per un’educazione dal volto umano, che doni al giovane l’amore di cui ha bisogno nella fase più delicata della sua vita.
In un secondo articolo continueremo ad analizzare il sistema preventivo, tirando anche delle conclusioni utili da spendere nel campo dell’educazione e dell’accompagnamento dei giovani.
Francesco Simone
1 Da ora con “ragazzo” si intende chiaramente sia ragazzo che ragazza”.
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