L’amore misericordioso di Dio
Il tratto saliente dell’amore di Dio è la misericordia, un amore “preveniente’’ ci dice santa Teresina di Lisieux riportando l’esempio di due figli di un medico. Santa Teresina racconta di un ragazzo che camminando su una via inciampò su una pietra, rovinando a terra e ferendosi. Immediatamente il papà medico accorse per guarire le sue ferite e il figlio percepì tutto l’amore del padre. Egli, sulla scorta di quell’esperienza, tolse la pietra dalla strada per evitare che anche l’altro figlio, passando di là, potesse ferirsi. L’altro figlio non inciampò, non si ferì, ma comunque sperimentò quell’amore misericordioso del Padre.
L’amore di Dio Padre non si sperimenta solo grazie al perdono ricevuto dopo il peccato. Il figlio che non ebbe necessità di essere guarito dal padre era infinitamente amato anche non avendo sperimentato il peccato e il successivo perdono. Qui sta la differenza tra la misericordia e il perdono. L’amore di Dio è sempre misericordioso ed è in azione tramite il perdono nel momento in cui chiediamo di essere liberati dal nostro peccato.
Questo incipit è l’introduzione a un ciclo di articoli sulla misericordia, tema che tratteremo in questo periodo di Quaresima e che si concluderà nella settimana della Divina Misericordia.
La scelta del tema è legata principalmente al desiderio di fare esperienza, soprattutto in questo periodo di Quaresima, dell’infinita misericordia di Dio e poter essere poi dispensatori della sua misericordia in tutto il mondo e tutti i giorni della nostra vita.
Oggi vi racconterò la storia di Raniero de’ Ranieri, un fiorentino d.o.c., vissuto a cavallo del XII secolo, in concomitanza con la nascita della Repubblica di Firenze.
Raniero era un coraggioso cavaliere, notoriamente prepotente e pronto a partire come crociato. Egli accompagnò Goffredo di Buglione sulle mura di Gerusalemme e quel giorno, avendo avuto accesso per primo alla città, ebbe l’onore di poter accendere la sua torcia nel fuoco che ardeva presso il Santo Sepolcro.
Quella sera entrò nella sua tenda un burlone che, scherzando, gli propose il voto di portare la sua torcia accesa fino a Firenze.
Raniero, amante delle sfide impossibili, accettò.
L’indomani mattina afferrò la torcia e salì a cavallo, ma si ricordò che il suo cavallo era addestrato al combattimento e con la sua andatura avrebbe sicuramente spento la fiamma. Egli scelse allora di montare al contrario per riparare la fiamma con il suo corpo.
Lungo il tragitto Raniero incontrò dei briganti, che egli avrebbe potuto sconfiggere con facilità, ma, per timore che la sua fiamma si spegnesse, disse loro che avrebbero potuto prendere tutto purché gli avessero lasciato la fiamma accesa. Così i briganti presero tutto, gli lasciarono la torcia, delle candele, il mantello del pellegrino e gli diedero un ronzino in cambio del suo cavallo. Raniero si meravigliò del suo comportamento totalmente distante da quello di un fiero cavaliere e analogo a quello di un povero mendicante.
Giunto nei pressi di una locanda affollatissima, il locandiere riuscì a trovargli un posto e Raniero pensò che era stato più facile attraversare il paese senza cavallo e armatura, ritrovandosi addirittura a dover ringraziare i briganti. Raniero era così stanco che era appena riuscito a fissare la torcia prima di crollare per il sonno. L’indomani, svegliatosi, non trovò più la fiaccola, ma poco dopo entrò nella stanza il locandiere che gli disse di essersi preso cura della fiaccola poiché aveva capito che era importante che non si spegnesse.
Nei giorni di pioggia incessante Raniero si riparava nelle grotte e in un’occasione stava per morire assiderato (poiché non voleva utilizzare la fiamma per accendere un fuoco) quando un fulmine colpì un albero che si incendiò ed egli potè scaldarsi senza dover utilizzare la fiamma.
Lungo la strada Raniero aveva incontrato dei cavalieri che gli avevano urlato “Pazzo! Pazzo!’’ e tra questi vi era un noto trovatore girovago, Roberto, che gli chiese da dove stesse cavalcando al contrario. Raniero, umilmente, rispose che stava viaggiando così da Gerusalemme e che la fiamma non si era mai spenta da quando l’aveva accesa nel Sepolcro di Cristo. Il poeta trovatore, meravigliato, gli chiese cosa dovesse fare perché anche la sua fiammella non si spegnesse e Raniero gli rispose “[…] Questa fiammella esige che non pensiate ad altro che ad essa. Non vi permette di avere una donna, qualora la desideraste. E per amore della vostra fiamma non potete neppure sedervi a un’allegra tavolata. Non potete avere nient’altro in mente che la fiamma. E nessuna occupazione dovrà essere per voi più importante. […] non avrete la certezza, neanche per un istante, di riuscire a portare la fiamma fino alla meta. Non dovete mai sentirvi sicuro, ma essere sempre pronto all’eventualità che già nell’istante successivo la fiamma vi potrà essere tolta’’.
Lungo il tragitto una donna gli andò incontro chiedendogli il fuoco della sua candela per poter accendere il suo fuoco. Raniero ritrasse la candela e a quel punto la donna gli disse “Dammi il fuoco, o pellegrino, perché la vita dei miei figli è per me una fiamma che devo custodire e mantenere accesa!’’. A quella parole Raniero porse la candela e la donna accese lo stoppino della sua lampada.
Proseguendo il cammino, un anziano signore gli lanciò un mantello in segno di carità, ma esso cadde sulla candela e la spense. Raniero, inizialmente rattristato, improvvisamente ricordò la donna a cui aveva permesso di accendere lo stoppino della sua lampada dalla sua candela e tornò da lei, dove ottenne nuovamente la fiamma. Quanto più avanzava nel cammino, più Raniero si meravigliava di che importanza avesse assunto per lui quella semplice fiaccola.
Giunto a Firenze, incontrò gli ostacoli più difficili: entrato in città una folla di giovani e sfaccendati, avendo compreso l’importanza della candela accesa, tentarono di spegnerla in tutti i modi possibili. Raniero si agitò come un pazzo sul cavallo, si mise in piedi, alzò la fiaccola, la coprì col mantello…fino a quando una persona da un balcone gliela sfilò di mano. Raniero cadde a terra disperato e la folla si diradò.
Poco dopo giunse una donna con la fiaccola in mano, dicendogli che gliela aveva sottratta per proteggerla. Lui, vedendo il bagliore della luce, si riprese, fu aiutato dalla donna a salire nuovamente a cavallo e si rimise in cammino. A quel punto si accorse che la donna stava piangendo e capì: la donna era Francesca, sua moglie. Ella pensava che Raniero fosse impazzito e non l’avesse riconosciuta, ma in realtà egli non l’aveva guardata perché il suo sguardo era stato rapito dalla fiaccola.
Raniero cavalcò velocemente verso il duomo e si sparse la voce che questi avesse riportato, senza mai spegnerla, la fiaccola accesa nel Sepolcro di Cristo a Gerusalemme, ma i suoi oppositori cominciarono a insinuare che ciò non fosse vero. A quel punto Raniero si accorse di non aver alcun testimone che potesse confermare la sua impresa.
Nel frattempo però era entrato nel duomo, si stava accingendo ad accendere la candela dell’altare, quando entrò un uccellino che con le sue ali spense la fiamma. “Raniero abbassò le braccia e i suoi occhi si riempiono di lacrime’’. All’improvviso la gente gridò per lo stupore: le ali dell’uccellino avevano preso fuoco e Raniero, lesto, riaccese la sua fiamma prima che si estinguesse. E questa fu la prova che tutti attendevano.
Da quel giorno Raniero divenne protettore delle vedove e degli orfani e visse in pace e felicità con la moglie Francesca. La sua famiglia fu poi denominata De’ Pazzi, soprannome a cui tutti i discendenti furono molto legati in memoria di questa impresa.
Il racconto, oltre a essere avvincente in sé, racconta delle battaglie contro i nemici dell’anima, prima quelli esteriori, forse un po’ più facili da sconfiggere, e poi mano a mano che ci si avvicina al cuore dell’anima, emergono i nemici spirituali, molto più difficili da combattere: l’orgoglio, la diffidenza nella verità, la vendetta…
Durante questo periodo di Quaresima possiamo coltivare il nostro cuore, estirpare tutte le erbacce, dissodare il terreno per poter seminare i semi della pace, della gioia, della giustizia, dell’umiltà, della carità, della riconciliazione perché portino frutto in abbondanza a tempo debito. Potrebbe sembrare un lavoro faticoso, ma in realtà “Nessun lavoro è difficile per l’uomo se ne comprende il senso […] quando l’uomo si entusiasma per degli ideali, è nella sua natura diventare infaticabile. Non sono il lavoro e le fatiche a renderlo stanco o svogliato ma il non conoscere il senso dei suoi sforzi ”: il senso è vivere una vita piena, bella, autentica.
Per coltivare il nostro cuore, per alimentare la fiammella d’amore che arde in esso, possiamo accostarci il più possibile alla confessione per sperimentare l’infinito amore misericordioso di Dio per ciascuno di noi.
Francesca Amico
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