L’oratoria, ovvero l’arte di saper parlare
Negli ultimi giorni si è acceso un grande dibattito intorno all’esibizione di Achille Lauro al festival di Sanremo. Per chi non l’avesse vista, in breve ha inscenato una specie di battesimo sul palco dopo essersi esibito.
In realtà, la cosa più interessante non è stata questa esibizione, della quale poco ci interessa parlare, ma la risposta del pubblico. Difatti sono nati subito gli schieramenti tra chi osannava il cantante e chi lo criticava pesantemente, definendolo blasfemo e irriverente verso i sacramenti e chiesa.
Alla luce di questo, sorge spontanea una riflessione: di tutto ciò che succede vale la pena parlare?
Nell’antica Roma, c’era una disciplina chiamata ars oratoria, ovvero l’arte di saper parlare, ed era un’abilità importante tanto nella vita pubblica quanto in quella privata, al punto che veniva anche studiata. Possiamo notare però che la radice di ora-toria è ora, dal latino orare, ovvero pregare.
Cosa significa questo? Che l’arte di saper parlare, o di parlare con sapienza (se vogliamo), è come pregare.
Non a caso si parla nella Bibbia più volte del Verbo, la parola di Dio. Dio con la parola crea e distrugge, innalza e umilia, fa morire e fa vivere. Può sembrare un discorso esegetico, ma la domanda che dobbiamo farci è: non è stato dato a noi lo stesso potere?
Prova a pensare a quanto potere hanno le tue parole. Una tua parola può avviare un progetto sul lavoro, o lo può distruggere; una tua parola può aiutare un tuo amico, o lo può umiliare; una tua parola può far morire o far vivere incidendo profondamente nella vita di una persona.
Ecco allora che le nostre parole acquistano tutt’altro significato, un significato che dobbiamo imparare a valorizzare.
Nel vangelo di Matteo (5, 37), Gesù afferma: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. Sostanzialmente, ci stava insegnando l’ars oratoria, ci stava insegnando l’arte di saper parlare, e che tutto ciò che è detto a sproposito non porta altro che male.
Ma nell’atto pratico come possiamo imparare anche noi l’arte di saper parlare?
Anzitutto, quando parliamo di saper parlare, non ci riferiamo all’esposizione, all’organizzazione del discorso o all’uso di parole edulcorate (che invece riguarda la retorica), ma parliamo del contenuto del discorso. Un buon modo potrebbe essere il metodo dei 3 setacci, che, erroneamente attribuito a Socrate, è in realtà un metodo spiegato da un saggio di nome Socrate del libro “La via del guerriero di pace” di Dan Millman (1980).
Quando facciamo un discorso, secondo Millman, dobbiamo porci tre domande.
Ciò che sto dicendo è vero? Corrisponde alla verità? Mi sono accertato di quello di cui sto parlando? Ho fatto delle ricerche? Questa è una domanda che ci pone anzitutto davanti al diritto di parlare di qualcosa perché, per quanto possa farci male, non su tutto abbiamo diritto di parola, se non adeguatamente informati al riguardo. Non vuol dire che dobbiamo essere i detentori assoluti della verità, ma che dobbiamo avere un atteggiamento propenso a cercarla nei discorsi che facciamo, altrimenti qualunque conversazione corre il rischio di diventare sterile. Se ti è mai capitato di parlare con qualcuno e dire: “mi sembra di parlare al muro” capisci cosa intendo, ma non dimenticare che tante volte tutti corriamo il rischio di alzare quel muro. La ricerca della verità implica anche sentire la posizione dell’altra persona, che per quanto possiamo non condividere va comunque accolta prima di tutto.
Ciò che sto dicendo è buono? Questa domanda ci interroga sull’intenzione del nostro parlare. Con quale intenzione sto dicendo una determinata cosa? Voglio vantarmi? Voglio fa sentire qualcuno inferiore? Ho il sincero desiderio di aiutare qualcuno consigliandolo? Ho voglia di lamentarmi? Penso che sia giusto correggere questa persona? Ciò che dico è edificante? Ciò che diciamo ha sempre un’influenza su chi ci ascolta, e se la nostra intenzione non è buona, per quanto il discorso che facciamo possa essere giusto e condivisibile, il frutto non sarà mai buono. Per fare un esempio, se io affermo: “la politica è tutto uno schifo, quelli che stanno lì vogliono solo tenersi la poltrona e non pensano agli interessi dei cittadini”, il concetto alla base potrà anche essere giusto (e anche li sarebbe da valutare caso per caso), ma ciò che sto facendo è instillare nella persona con cui parlo una profonda disillusione per la politica e nella ricerca del bene del paese. Se invece dico “trovo che molti politici pensino al loro interesse, forse dovremmo fare qualcosa per cambiare le cose” non sto disilludendo, ma sto spronando alla ricerca di un’alternativa proattiva.
Ciò che dico è utile? Ciò che sto dicendo, vale la pena di essere detto? E questa domanda ci interroga anche sul nostro interlocutore. Vale la pena dire una determinata cosa a un’altra persona? Quella persona è disposta ad accogliere ciò che diciamo? Stiamo avendo un dialogo efficace oppure ci stiamo mettendo uno contro l’altro? Non necessariamente vale la pena parlare con qualcuno che non è disposto ad accettare il nostro punto di vista. Colpisce a questo riguardo, l’episodio di Gesù condotto da Erode Antipa raccontato nel vangelo di Luca (23, 8-9): “Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla”. Lo scopo di Erode nel parlare con Gesù è quello di vedere un fenomeno da baraccone. Erode vuole vedere qualche miracolo quasi fosse uno spettacolo da circo. Gesù nemmeno di prende la briga di rispondergli. Perché è cattivo? No, ma perché le parole spese con qualcuno che non è disposto ad ascoltarle sono parole gettate al vento. A tal proposito Gesù userà nel vangelo di Matteo (7, 6) un’espressione molto più forte: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”. Ciò non significa togliere la dignità di un’altra persona o ritenerla inferiore a noi, ma avere la capacità di discernere quanto quella persona è disposta ad ascoltare ciò che abbiamo da dire o quanto quelle parole saranno usate solo contro di noi. Se dall’altra parte c’è chiusura, forse la migliore risposta è il silenzio, non la polemica.
Ti invito in questi giorni a stare attento a ciò che dici e a porti queste domande prima di parlare, perché se il mondo è stato creato da una parola, il mondo può migliorare con una parola vera, buona e utile.
Antonio Pio Facchino
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