“Questo è il mio corpo’’: l’esperienza dello sguardo
Negli articoli precedenti abbiamo ricordato come una sana autostima – che è il punto cardine di un’affettività risolta e quindi di una vita piena – dipenda da sguardi, parole e gesti d’amore.
In un percorso a ritroso (per dare un po’ di dinamicità a ciò che poteva sembrare scontato) abbiamo trattato dei gesti e delle parole. Quindi, non resta oggi che trattare dello sguardo.
Partiamo da uno sguardo molto intenso.
Lo sguardo di un viaggiatore che, accortosi di un uomo malconcio e morente sulla strada, decide di fermarsi, di mettere in pausa i suoi programmi, di ritardare l’arrivo alla sua meta perché il suo cuore prova compassione per quello sconosciuto.
Il viaggiatore si avvicina, medica e fascia le ferite del morente e se ne fa carico conducendolo in una vicina locanda. Trascorre la notte con lui, non lo abbandona, e solo l’indomani (quando ormai non poteva più ritardare ulteriormente il suo viaggio) affida lo sconosciuto alle cure dell’albergatore, pagando di tasca propria l’ospitalità, assicurando che sarebbe tornato per rimborsare le eventuali spese ulteriori (Lc 10, 30-37).
Il viaggiatore dona due beni inestimabili, il suo tempo e il suo amore (e anche un bene a cui l’uomo è molto legato: il denaro) a uno sconosciuto che probabilmente neanche rivedrà più, solo in forza dell’amore gratuito che sgorga dalla nostra umanità, dal nostro essere impastati con la morte e con l’eternità.
È il richiamo alla vita e della vita che è più forte dell’egoismo, dell’indifferenza, della morte.
È curioso che il viaggiatore sia stato il terzo ad aver incontrato il malcapitato, ma l’unico ad avere avuto compassione, sebbene fosse l’ultimo da cui aspettarselo (prima di lui erano passati per di là un sacerdote e un levita, attenti osservanti della Legge). È una circostanza che attira l’attenzione perché ci mostra che in realtà, per amare in modo gratuito e totale come Dio ci ama, basta essere profondamente umani, basta rispondere a quella chiamata di amore profondo che ciascuno di noi ha nel cuore, riscattandosi da tutte quelle ferite che ci sono state inferte o che ci siamo procurati con le nostre mani e da tutte quelle crisi che ci hanno messo in ginocchio.
“Le crisi umane sono sempre crisi di nascita, una parte di noi spinge per venire alla luce. Il mare della vita ci restituisce a un indistinto da cui uscire più capaci di destino, in attesa della prossima liquefazione. I momenti in cui sono tornato liquido mi hanno terrorizzato, e allo stesso tempo hanno reso forte la necessità di un nuovo respiro e la nostalgia della terraferma, l’hanno ridefinita dentro di me, permettendomi poi di raggiungerla. Ma perché questo accada occorre accettare di essere quel mare e quel naufragio: solo così la sofferenza diventa feconda. Per tirare avanti creiamo corazze di identità, maschere che non sono altro che spoglie già morte ma che ci servono a essere riconoscibili per gli altri; ma poi la vita, verità che deve incarnarsi, si incarica di spezzare queste corazze, per restituirci a ciò che veramente ci appartiene o a cui davvero apparteniamo. Itaca è questo: un’isola in mezzo al mare, il frutto più compiuto della morte per mare’’[1].
Lo sguardo di Dio è uno sguardo che non solo si accorge della presenza di un suo figlio (malconcio), ma si accorge anche della sua assenza.
Tra cento pecorelle in un certo momento se ne perde una. Dio non ci pensa un attimo, lascia le novantanove pecorelle nel deserto per correre a cercare quell’unica che si è persa (Lc 15, 1-6).
No, non ha niente di utile questa scelta. Sarebbe probabilmente più ragionevole sacrificare un’unica pecorella a fronte di perderne novantanove, o anche cento - Dio non ha nessuna certezza di ritrovare quella perduta. Ma Dio non ragiona così. Dio non ragiona per utilità. Ragiona per inutilità. Ragiona per Amore. Amore inutile (ossia senza utile, senza vantaggio, gratuito).
Si accorge che una vita senza quell’unica pecorella è una vita più povera, una vita meno bella. Perdere quella pecorella equivale a perdere tutto ciò che ha.
Dio ragiona così perché ciascuno di noi è insostituibile.
Solo tu puoi concretizzare nel mondo, nella vita, nella realtà quel desiderio che hai nel cuore che non ancora esiste. Solo tu puoi. Hai un posto nel mondo che solo tu puoi occupare, nessun altro. E se tu non realizzi quel desiderio che hai nel cuore, nessuno lo farà al tuo posto e il mondo sarà un po’ più povero. Tutta l’umanità sarà un po’ più povera.
Se tu non vieni alla luce tutta l’umanità avrà una vita in meno, una bellezza che viene meno, una ricchezza che viene meno.
Rimaniamo nello sguardo d’amore di Dio e ricordiamoci che la vita senza di noi non è la stessa, che noi siamo preziosi agli occhi di Dio, che nessuno potrà mai sostituirci, siamo unici e con quella unicità abbiamo la missione di costruire ciò che non ancora esiste.
Siamo vivi e abbiamo dentro di noi un “principio di animazione (anima, dal greco ànemos, “soffio’’) dell’esistenza umana [che] è il respiro [e] quello di azione [che] è il desiderio (da de-sidera, “distanza dalle stelle’’, mancanza chiamata, vocazione) […] Albert Camus scrisse che “il pensiero di un uomo è innanzitutto la sua nostalgia’’, intuendo che la nostalgia è molto di più di un sentimento regressivo e rivolto al passato; è la lotta che ogni uomo conduce per creare un mondo che non ancora esiste ma a cui si sente chiamato a “tornare’’, perché lo percepisce come qualcosa di perduto dal momento che “gli manca’’. Eppure il mondo a cui il suo desiderio anela gli sta davanti, non lo ha perso: non lo ha ancora trovato’’[2].
Lasciamoci guardare da Dio nelle nostre fragilità, diamogli la possibilità di guarire le nostre ferite che ci potrebbero condurre alla morte in alcune zone d’ombra delle nostre vite.
Lasciamoci sollevare da Dio e liberarci dalle sabbie mobili in cui siamo incappati.
Lasciamoci amare.
Francesca Amico
[1] A. D’AVENIA, Resisti, cuore. L’odissea e l’arte di essere mortali, Milano, Mondadori Libri S.p.a., 2023, p. 53.
[2] ivi, pp. 56,57.
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