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Andare in mare aperto

Oggi parto dall’ammettere una difficoltà: scrivere quest’articolo mi ha richiesto cinque mesi di duro lavoro! Sembra paradossale perché non si tratta di un libro o, tantomeno, di una ricerca scientifica che richiede dovizia di particolari e attenzione ai dettagli. Da quando è nata Parusia (quasi tre anni fa), mai mi era capitata una cosa del genere, anzi: anche nelle difficoltà, anche sotto esame o sotto pressione per il lavoro, scrivere un articolo risultava la cosa più semplice e naturale di questo mondo. Ho fatto difficoltà a scrivere perché ero nella tempesta senza rendermene propriamente conto fino a qualche giorno fa. Negli ultimi mesi ho intrapreso un “viaggio” che mi avrebbe portato a lasciare il mio porto sicuro per affrontare il mare aperto delle opportunità lavorative e, ahimè, anche delle delusioni professionali. Tanto che mi sono imbattuto in una tempesta che ha messo a dura prova la mia barca, facendomi quasi scivolare nel mare aperto. Ho tentato un concorso di dottorato, arrivando quasi a vincerlo salvo poi fallire nell’ultimo passaggio.

Più riflettevo sulle cause del mio fallimento e più cercavo la Parola di Dio che potesse illuminarmi e dare consigli sulla nuova rotta da tracciare sulla mia mappa. Eppure, anziché avere luci, i dubbi e le perplessità aumentavano logorandomi giorno dopo giorno. La mia vita procedeva con naturalezza, vivevo anche cose bellissime ma, nel profondo del cuore, sentivo un macigno per non aver colto l’occasione del concorso al meglio e, soprattutto, per non sapere cosa fare della mia vita dopo aver investito mesi ed energie su un progetto fallito. Ma non tutti i mali vengono per nuocere e, attraverso questa tempesta emotiva, ho conosciuto una nuova parte di me: l’agitazione. Pensavo di essere un uomo pacato e riflessivo, invece mi sono reso conto di andare facilmente in agitazione e, quando non so che fare, tentare tutte le strade possibili ed immaginabili nella speranza che almeno una di esse funzioni! Che stupido perché un ragionamento che parte dallo stomaco non porta mai a nulla di buono.

Qualche giorno fa, per “caso”, mi sono imbattuto nel passo del Vangelo di Marco (Mc 4, 35-40) e, dopo anni di fede vissuta, solo adesso ho colto una sfumatura straordinaria per me, che voglio condividerti: 35In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all'altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Solitamente leggevo questo Vangelo e pensavo all’agitazione degli apostoli, spaventati dalla tempesta. Invece questa volta la mia attenzione è stata attratta dall’atteggiamento di Gesù il quale prima invita i suoi amici a prendere il largo e poi, salito con loro, si mette a dormire. Gesù sapeva che il lago di notte, a causa delle forti correnti e dei venti che scendono, produce delle tempeste, sapeva che con una piccola barca da pesca molto probabilmente sarebbero andati in difficoltà, sapeva tutto eppure accompagna Lui stesso i suoi amici per dargli una grande lezione di vita: quando sei nella tempesta della vita in mare aperto, spesso la cosa migliore per salvarti è restare immobile, “fare il morto” come noi d’estate al mare perché l’agitazione ti porta a muoverti tanto ma senza una direzione precisa fino al punto di lasciarti stremato e farti affondare negli abissi.

Gesù dorme beatamente (beato Lui!) mentre noi, anche se veniamo da forti esperienze di fede, alla prima tempesta ci sentiamo smarriti e gli chiediamo come gli apostoli: “Ma non t’importa niente di noi?”. Proviamo nostalgia della riva, della sicurezza e della pace. Forse proviamo invidia per quanti viaggiano col vento in poppa mentre noi a malapena riusciamo a remare, guardiamo alla miseria della nostra barchetta e non a Cristo che è su di essa. La conferma di questo Vangelo l’ho ricevuta sabato, in occasione del matrimonio di miei due carissimi amici: attraverso la testimonianza diretta loro e di altri amici invitati con i quali mi sono ritrovato a parlare, ho toccato con mano la presenza di Dio sulla mia barca e ho sentito quella Parola che cercavo da tempo e che ha placato la mia agitazione. Questo non vuol dire che d’ora in avanti le tempeste della vita non mi faranno più paura ma questa mi ha fatto maturare. Si dice che “un mare calmo non ha mai fatto marinai esperti” ed è così: le prove della vita sono positive solo se le portiamo alla presenza di Dio Padre e non ci lasciamo sommergere da esse. Termino quest’articolo con una gioia indescrivibile nel cuore, tale che non l’ho provata nemmeno quando scrissi il primo di Parusia. Ti lascio con una promessa: non temere il mare aperto, non temere le onde, non temere di essere inadeguato per la navigazione. Molto probabilmente la tua imbarcazione non è il top, forse ti mancheranno sempre delle cose ma sappi che, se lasci salire Cristo su di essa, nessuna tempesta potrà prevalere. Gesù ci parla spesso ma altrettanto spesso tace affinché siamo noi a poter parlare e rispondere alla sua domanda. Abbi fede amico mio, non temere amica mia: lasciati amare e guidare!

Emanuele Giuseppe Di Nardo

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