Pilato: la paura di vivere davvero

Se pensiamo a lui, la prima cosa che ci viene in mente è la classica espressione “me ne lavo le mani” come a dire “non m’interessa, non voglio occuparmi di questo problema”. Eppure la storia di Pilato va ben oltre l’incapacità di prendere una posizione nel processo a Gesù. Ha radici più profonde, più intime, più vicine a noi di quanto si possa pensare. 

Non sappiamo molto di Ponzio Pilato ma non ci vuole tanto per capire che stesse facendo molta fatica a scalare i gradi all’interno dell’esercito romano. Per Roma la Giudea era una “polveriera” pronta ad esplodere se qualcuno avesse innescato la miccia. Occorre pensare che, circa 70 anni dopo gli eventi della Passione, l’Impero romano sotto Traiano avrebbe raggiunto la sua massima espansione territoriale. Quindi, all’epoca di Gesù, Roma aveva una presa forte sulle province, Giudea compresa. Ma, dove non riusciva ad esercitare un controllo diretto e forte, si giocava la carta delle alleanze, ponendo a capo di un territorio alcuni “sovrani fantoccio”, governanti solo di nome perché alle strette dipendenze del potere centrale. Pilato viene mandato quindi nel posto peggiore dell’Impero, forse per punizione o come prova da superare per fare carriera. Dunque, immagina la sua tensione, con uno Stato di cui non si fida, con degli interlocutori che sono sacerdoti che pensano solo ai propri interessi e che, anzi, desiderano la distruzione di Roma, e con una serie di frange popolari, come gli zeloti, che predicano la rivolta armata contro i centurioni romani. Davvero era una situazione delicata dove Pilato avrebbe potuto solo tamponare l’emorragia, senza trovare una cura efficace al problema. 

Ecco che si avvicina la Pasqua: un uomo di cui tutti hanno sentito parlare, giunge a Gerusalemme su un asino, acclamato dalla folla come il “Messia”. I romani, attenti a tutto, di certo erano informati sulle profezie messianiche degli ebrei e sapevano che questo famoso “unto dal Signore” si sarebbe rivelato un condottiero prode mandato per liberare il popolo eletto dalla schiavitù romana. Il film “La passione di Cristo” di Mel Gibson tenta di restituirci il conflitto interiore provato da Pilato prima e dopo aver incontrato Gesù: l’incertezza sul da farsi, la necessità di distinguere il bene pubblico da un giudizio morale, l’incapacità di soddisfare i bisogni di tutti. In realtà, il conflitto di Pilato è come il nostro: Gesù entra nella nostra vita, bussa alla porta e noi sentiamo di voler credere in Lui ma, quando gli poniamo domande concrete, Lui ci risponde con frasi enigmatiche, proprio come a Pilato che non può far altro che chiedere: “Quid est veritas?” (Cos’è la verità?). Ognuno di noi ricerca qualcosa di vero, non vuole vivere nella menzogna ma sentire che tutto sia reale e spontaneo. Nessuno vorrebbe un fidanzamento falso, un’amicizia basata sulla menzogna, un lavoro falso che ostentiamo sui social per non affermare che quello reale che facciamo non ci piaccia molto. Pilato cerca la verità, Gesù è di fronte a lui, sembra solo questione di secondi: un cristiano potrebbe dire che sia Gesù la risposta alla domanda del generale romano! Come dice sant’Agostino, sciogliendo e ricomponendo la domanda “Quid est Veritas?” con “Est vir qui adest” (è l’uomo che hai davanti”).

Eppure Pilato se ne lava le mani, riconosce che in Gesù non ci sia alcuna colpa ma non riesce a fare quel passo decisivo, non riesce a credere alle parole di un uomo giusto ma indifeso, innocuo, praticamente già condannato dai sacerdoti. Pilato tenta più volte di far desistere la folla aizzata, invano però. Ecco allora che, quando sembrava ormai mosso a compassione, ascolta una voce interiore che lo blocca, quella stessa che disturbava Caifa: “Se lo lasci vivere, i giudei faranno in modo che sia tu a morire!”. Capisce che in quella scelta avrebbe messo a repentaglio tutta la sua vita, la sua posizione faticosamente raggiunta, i suoi anni di guerre nell’esercito. Tutto per salvare un uomo di cui in realtà non sapeva nulla e che, presto o tardi, sarebbe potuto essere ucciso a sangue freddo in qualche via di Gerusalemme o lapidato come tentarono diverse volte i suoi avversari. Così, un uomo pronto a fare del bene, alla fine commette una colpa gravissima: non si schiera, se ne lava le mani. 

Pilato non è molto distante da noi. Quante volte ci è capitato di fare esperienza nella fede, di sentirci davvero toccati dalle parole del Vangelo ma poi, quando avremmo dovuto fare il passo successivo e metterle in pratica, la paura del giudizio altrui, di perdere una posizione, di non essere compresi dai nostri cari ci ha costretti a restare fermi, a lasciar perdere. Abbiamo scelto liberamente ma i frutti di questa scelta hanno appesantito il nostro cuore, come chi sa di aver sbagliato nel non provarci, come un rimorso costante. Pilato non sceglie liberamente ma mette davanti a sé tutti i lacci che lo tenevano legato alla sua posizione. E sceglie di restare fermo nelle sue posizioni. Cosa avrà pensato quando il cielo si è oscurato e il terremoto ha colpito Gerusalemme? Cosa avrà pensato quando gli avranno riferito che Gesù era risorto?

Oggi t’invitiamo a prenderti un po’ di tempo e, riflettendo su Pilato, a rispondere ad alcune di queste domande, quelle soprattutto che senti che ti toccano particolarmente:

  • Quand’è che io sono Pilato? Quando accantono le vere domande, quando riconosco che in Gesù c’è “qualcosa” di superiore, ma non gli permetto di sconvolgermi la vita? 
  • Quando sono debole davanti agli uomini, e mi lascio vincere dal timore che ho di loro, anziché fare ciò che nel mio cuore so che è giusto? 
  • Davanti al male, che sia piccolo o che sia grande, che mi riguardi o che non mi riguardi, che atteggiamento ho? Fuggo, me ne lavo le mani perché “non è affare mio”, o lo affronto e ne subisco le conseguenze?

Maria Chiara Di Giovanni – Emanuele Di Nardo

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